SI CONFIGURA LA VIOLENZA SESSUALE SE LA MOGLIE NON SI RIBELLA SOLO PER PAURA DI UNA REAZIONE

PER LA CORTE DI CASSAZIONE COSTITUISCE VIOLENZA SESSUALE LA CONDOTTA DEL MARITO CHE FINGENDO DI IGNORARE IL MANCATO CONSENSO DELLA MOGLIE, REITERI ATTI DI LIBIDINE SUBDOLI E REPENTINI, COMPIUTI SENZA ACCERTARSI DEL CONSENSO DELLA PERSONA DESTINATARIA O, COMUNQUE, PREVENENDONE LA MANIFESTAZIONE DI DISSENSO.
LA VICENDA PROCESSUALE
Il Tribunale di Lecce prima e la Corte d’Appello distrettuale poi, hanno condannato il marito per i reati di violenza sessuale e minaccia protrattisi per almeno sei anni prima della cessazione della convivenza con la moglie.
Introdotto ricorso per Cassazione, la difesa dell’imputato ha insistito sulla inattendibilità della persona offesa, rafforzata, a suo dire, dalla totale assenza di certificazione medica.
La Suprema Corte, ribadito il difetto di giurisdizione del Giudice di legittimità sulle questioni attinenti alla ricostruzione in fatto, ha rigettato il ricorso condannando l’imputato all’ammenda di euro 3.000 in favore della cassa delle ammende per aver concorso nella determinazione del motivo di inammissibilità del ricorso.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE RESA CON SENTENZA n. 19611 del 18 MAGGIO 2021
Secondo i Giudici di Piazza Cavour, la Corte territoriale ha coerentemente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti sia in fatto che in diritto per la conferma della condanna.
La donna infatti aveva minuziosamente dettagliato come i rapporti sessuali non consenzienti avevano avuto inizio circa quattro/sei anni prima della cessazione della convivenza.
D’altro canto, anche la circostanza per cui la donna, da tempo aveva deciso di dormire insieme ai figli, non impediva al marito di cercarla e costringerla a consumare rapporti sessuali che ella, soggiogata dal timore di una reazione violenta, non aveva la forza di rifiutare apertamente.
Secondo la Corte d’Appello, la violenza risultava integrata dal dissenso della persona offesa alla consumazione di rapporti sessuali e dalla consapevolezza, da parte del marito, di tale rifiuto.
La Suprema Corte precisa quindi che in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo consiste sia nella violenza in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare nella vittima una forma di coartazione della volontà, portandola a subire atti sessuali repentini.
Anche la semplice intimidazione psicologica attuata in situazioni particolari, tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, costituisce l’elemento sufficiente per ritenere la sussistenza dei fattori positivi previsti dalla norma incriminatrice della violenza sessuale e della minaccia. Neppure è necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale: è sufficiente che l’agente approfitti dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta, tanto da non riuscire a manifestare il proprio rifiuto che, pertanto, deve ritenersi desunto da una molteplicità di fattori anche a prescindere dalla esistenza di riscontri fisici sul corpo della vittima e a prescindere dal fatto che non abbia mai avuto il coraggio di denunciare i fatti alle autorità, così, peraltro, confermando la totale soggezione psicologica.
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