CRISI AZIENDALE? PRIMA CONTRIBUTI E RITENUTE E POI GLI STIPENDI

Con la sentenza n. 56432/2017 la Corte Suprema ritorna sulla tematica dell’omesso versamento dei contributi previdenziali emettendo una decisione che sicuramente non andrà esente da polemiche e ripercussioni sociali.
I giudici della Suprema Corte, invero, sono intervenuti a cassare solo in parte la sentenza della Corte d’Appello di Milano che confermava (pur concedendo all’imputato il beneficio della non menzione della condanna), la precedente sentenza emessa dal Tribunale di Milano con la quale era stato condannato un imprenditore poiché ritenuto colpevole di aver omesso di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate, come datore di lavoro, sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, relative al periodo compreso tra il dicembre 2011 e l’ottobre 2012, per un ammontare complessivo di € 32.098,00 e che, secondo la prospettazione fornita dall’imputato, dipendevano dalla insuperabile situazione di crisi aziendale, si da escludere non solo la natura dolosa del delitto ma tale da prefigurare finanche una ipotesi di forza maggiore con conseguente applicazione della esimente di non punibilità ex art. 45 c.p.
Il Supremo Collegio, confermando il precedente orientamento (Sent. 37232/2016), riguardante il momento consumativo del reato di omissione contributiva previsto dalla l. n. 638/1983, ha ribadito che, ai fini della configurabilità del reato in esame è necessario che ricorrano due condizioni: la prima è che il termine previsto per il versamento della ritenuta sia infruttuosamente scaduto; la seconda consiste, dopo la modifica introdotta con il d.lgs n. 8/2016, nel fatto che sia superata la soglia di punibilità annuale di 10.000 euro.
La modifica da ultimo apportata, ha di fatti trasformato il reato in questione da “reato omissivo proprio istantaneo” – che si perfezionava, indipendentemente dall’entità dell’importo non versato, all’atto dello scadere del termine previsto per il pagamento (ossia entro il 16 del mese successivo a quello a cui si riferiscono i contributi)- a “delitto istantaneo o di durata e, in quest’ultimo caso, ad effetto prolungato, sino al termine dell’anno in contestazione”; sicchè, il momento consumativo si identifica non già con la scadenza di una o più mensilità, ma allorquando, nell’arco del medesimo anno solare, venga superata la soglia di euro 10.000, sempre che, nel termine di tre mesi dalla contestazione della violazione, il datore di lavoro non adempia volontariamente si da esporsi solo ad una sanzione amministrativa da euro 10.000 a euro 50.000.
Alla luce dei richiami giurisprudenziale e delle evoluzioni normative che hanno interessato il reato contestato, la Corte, respingendo il ricorso, si è soffermata sulla invocata esimente di non punibilità per l’insussistenza dell’elemento soggettivo del dolo e per la ricorrenza del caso fortuito.
Il Collegio ha infatti ritenuto non provata, ad opera dell’imputato, l’assoluta impossibilità di adempiere agli obblighi contributivi, come dimostrato dalla circostanza per cui l’imprenditore ha, nonostante la denunciata crisi aziendale, continuato a corrispondere mensilmente le retribuzioni e che, pertanto, l’impresa non si trovava in quella situazione di impossibilità di compiere scelte alternative, ovvero “nella condizione di una condotta (omissiva) irresistibilmente coartata verso un determinato risultato o effetto (il mancato versamento delle ritenute previdenziali)”.
Ed invero, secondo gli Ermellini, nel caso di conflitto tra l’obbligo contributivo e il diritto dei lavoratori a percepire la retribuzione (diritto che peraltro trova tutela nell’art. 36 della nostra Costituzione), non è illogico ritenere “di dover accordare prevalenza a quello che solo riceve una tutela penalistica attraverso la previsione della fattispecie incriminatrice qui in rilievo. Pertanto, l’imputato avrebbe dovuto, dinnanzi al contestuale sorgere delle due obbligazioni, accantonare le somme corrispondenti al debito previdenziale, onde provvedere al versamento entro il sedici del mese successivo.
Per dirla alla Maria Antonietta d’Asburgo «Se non hanno più pane, che mangino brioche».
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Studio Legale Gelsomina Cimino