LA POSIZIONE DEL DIRIGENTE LICENZIATO

Con l’ordinanza n. 27199/2018 la suprema Corte di Cassazione si è espressa sul ricorso avanzato da una dipendente di un gruppo biochimico italiano, la quale, svolgeva, con inquadramento dirigenziale, le funzioni di “Direttore Supply chain”. La stessa era stata quindi, licenziata in conseguenza dell’adozione di un piano di riorganizzazione aziendale che prevedeva l’eliminazione della posizione ricoperta.
Impugnato il licenziamento innanzi alle competenti autorità giurisdizionali, il giudice di primo grado accoglieva il ricorso condannando la società datrice di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 10 mensilità.
Tale decisione fu tuttavia riformata in sede di gravame, in quanto, a parere della Corte d’Appello, sulla base dell’istruttoria espletata in primo grado, dovevano ritenersi confermate le ragioni poste a fondamento del recesso del datore di lavoro.
La manager proponeva, quindi, ricorso in Cassazione lamentando, con quattro motivi distinti, l’omesso esame dei fatti storici e dei documenti dai quali emergeva chiaramente che la posizione da lei ricoperta, ed in cui aveva conseguito ottimi risultati, non solo non era stata soppressa, ma addirittura potenziata, stante l’adibizione ad essa di nuovi assunti oltre che di personale già dipendente.
Sul punto la Suprema Corte ha osservato che la disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi n. 604/1966 e 300/1970 non è applicabile ai dirigenti. Ne consegue che, ai fini dell’eventuale riconoscimento dell’indennità supplementare prevista per la categoria dei dirigenti, occorre fare riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza che si discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da quello di giustificato motivo ex art. 3 legge n. 604/1966 e di giusta causa ex art. 2119 c.c., trovando la sua ragion d’essere, da un lato nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni affidate, e dall’altro nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente.
Non è richiesto quindi, ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente che le ragioni oggettive che sorreggono il recesso coincidano con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione, essendo sufficiente la dimostrazione da parte del datore di lavoro, dell’avvenuta riorganizzazione aziendale e del fatto che essa fosse tale da coinvolgere la posizione del dirigente.
La Corte ha aggiunto altresì, che per stabilire se sia giustificato il licenziamento di un dirigente, intimato per ragioni di ristrutturazione aziendale, non è dirimente la circostanza che le mansioni da questi precedentemente svolte vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle sue proprie (o, si precisa, come nel caso, redistribuite ad altro personale), in quanto quel che rileva è che presso l’azienda non esista più una posizione lavorativa coincidente con quella del lavoratore licenziato.
In tale prospettiva, secondo la Suprema Corte, il giudice dell’Appello ha correttamente ritenuto che non ostasse alla giustificatezza del licenziamento per soppressione, il fatto che una parte delle mansioni relative all’area Supply Chain siano state affidate ad un lavoratore assunto alcuni mesi dopo il licenziamento della ricorrente, con l’inferiore inquadramento di Quadro A1 configurandosi comunque un’effettiva e non pretestuosa rimodulazione dell’assetto aziendale, attesa la non coincidenza delle mansioni e della posizione aziendale. Sulla base di tali motivazioni, la Corte Suprema non ha potuto far altro che rigettare il ricorso con condanna della ricorrente alle spese di giudizio.@Produzione Riservata – Studio legale Cimino
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